sabato 15 novembre 2014

La pecora nera di Tempi Moderni

Words like violence
Break the silence
Come crashing in
Into my little world
Painful to me
Pierce right through me
Can't you understand 
Oh, my little girl?

All I ever wanted
All I ever needed
Is here in my arms
Words are very unnecessary
They can only do harm

Vows are spoken
To be broken
Feelings are intense
Words are trivial
Pleasures remain
So does the pain
Words are meaningless
And forgettable

All I ever wanted
All I ever needed
Is here in my arms
Words are very unnecessary
They can only do harm

Enjoy the silence
(Depeche Mode)

Nella prima scena del film Tempi Moderni (1936) di Charlie Chaplin si vede un gregge di pecore dall'alto, mentre si dirigono tutte quante verso il basso. Tra esse passa quasi inosservata una pecora nera nel mezzo.


Sul piano metaforico si può ricollegare l'immagine direttamente al primo episodio del film in cui gli operai che lavorano come bestie nelle fabbriche si dirigono come sempre verso i loro posti di lavoro e di degrado senza fiatare, dove vengono trattati come schiavi; tra loro c'è un operaio diverso, forse l'unico normale, poiché incapace di sopportare quei ritmi di lavoro assurdi, tanto da cadere infine in un esaurimento nervoso da manicomio.

In questi "tempi moderni", sembra volerci dire Chaplin c'è da diventare pazzi poiché l'Umanità è completamente degradata da logiche di produttività e profitto di pochi.

Ma questa spiegazione non basta. Come sostiene Truffaut, un capolavoro dice anche qualcosa sul cinema.

Perché Chaplin ha sentito la necessità di fare una riflessione "storica" così profonda e critica sul suo tempo e sulla società che lo circondava, dopo tanti altri suoi film dallo sfondo storico più generico, se non già passato?
Ma la "pecora nera"-vagabondo è anche in qualche modo la "pecora nera"-Chaplin?

Forse una chiave è la diffusione del sonoro nel cinema a partire dall'orribile film "Il cantante di jazz" del 1927.

Chaplin, autore già nel '36 di autentici capolavori del muto (La febbre dell'oro, Il monello, Il circo, Luci della città, per citare solo i lungometraggi), ora si ritrova in una nuova era dell'arte che aveva per anni dominato, ed era quasi completamente spiazzato dal cinema sonoro, i cui ritmi sono più simili a quelli disumani e disumanizzanti della fabbrica piuttosto che a quelli dell'arte e dell'espressione appunto. Per cui si fa fagocitare anche lui dagli ingranaggi del cinema sonoro, e quei movimenti concitati così tipici del muto e così comici di per sé, qui assumono un significato nuovo sul piano drammatico, esprimono un disagio e un senso di inadeguatezza per il nuovo ritmo della società a cui il regista-attore-vagabondo che Chaplin era non riesce a star dietro, oppure non condivide in qualche modo.

La scena iniziale delle pecore è già emblematica di tutto il significato e il meta-significato del film, quel sentirsi diversi in un mondo completamente cambiato, forse completamente impazzito, certamente "impazzente", ossia che fa impazzire. Chaplin deve rispondere adesso ad un pubblico che ormai nel cinema, l'arte delle immagini-in-movimento, non si accontenta più solo delle immagini-in-movimento, vuole sentire le parole, con un "audio" perfettamente coerente con le immagini, non più musica dal vivo, sempre diversa. Per tutti questi motivi l'artista Chaplin coglie l'opportunità di spingersi ancora oltre. Più che le parole, la narrazione parlata, decide di usare il sonoro in senso lato e più astratto, anch'esso come strumento espressivo e non semplicemente esplicativo, lo intende come suoni, musica e voce.

I suoni si inseriscono infatti in modo esilarante in tanti brani del film (penso alla moglie del ministro in carcere), integrandosi perfettamente con la sua verve comica, e anche la musica (composta da lui stesso, e sembra quasi di avere di fronte un "wagneriano" Wort-Ton-Film) è sempre pronta a connotare abilmente le situazioni come a sottolineare le più piccole variazioni nelle sfumature dei sentimenti e dei gesti.

E poi la voce, la sua voce, quella di Chaplin stesso, quella che nessuno aveva mai sentito prima e che finalmente il pubblico dell'epoca per la prima volta nel cinema sonoro può ascoltare con questo film.

Canta, come si cantava 9 anni prima nel primo film sonoro appunto, Il cantante di jazz. Ma canta un nonsense. Magari proprio in polemica con quel film, che di artistico ha ben poco.

In una delle scene più memorabili di Tempi Moderni, nel finale, il vagabondo canta dunque una canzone il cui testo, scritto sui polsini perché non lo ricordava a memoria, ha smarrito maldestramente… Eppure capiamo tutto il senso di quello che dice usando parole di lingue diverse, e per di più ci emozioniamo, poiché accompagna la performance canora con la danza e con tutto il repertorio di movimenti del corpo e del viso che Chaplin è stato capace di raffinare in anni e anni di successi muti.

E riguardando il film oggi e questa scena finale in particolare, ci accorgiamo di quanto non sia stato il sonoro in sé ad arricchire di espressività del cinema, e che tanti registi e tanti film successivi sono delle anonime pecore bianche, sia pure parlanti, ma artisticamente veramente "mute", se messe al confronto con questo Chaplin.

Perché, come sempre, per l'artista vero non è importante una storia in sé, ma come la si racconta.

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